Il dialogo impossibile
Volevo intervenire al tema del PEEP in contrada Cugnarelli , ma non ho trovato nel sito il modo di rispondere, così mando una riflessione a quest’altro articolo di urbanistica. Più teorico. Meno abbondante di argomenti, ma sempre un’occasione per trasmettere delle considerazioni spero utili.
Felicissimo e mi complimento per la probletizzazione del tema da parte di Sinistra Nuovo Corso. Solo divulgando istanze e perplessità si diffonde una nuova consapevolezza civile su tematiche sociali.
Parlare di piazza? Del valore urbanistico e fondativo di questo elemento morfogenetico della città? Servirebbe troppo spazio per essere esaurienti e non mi sembra il sito - nella sua generalità - abbia la propensione disciplinare adeguata. In questo senso (del tema piazza) sostengo completamente e condivido quanto espresso da “Angelina” nel suo breve ma significativo intervento.
Leggermente e senza troppa seriosità – ma lo stesso seriamente – voglio proporre una cornice di colore all’argomento in oggetto.
Facciamo una finzione: provate mai a immaginare questo nostro pianeta, come un essere in grado di parlare e di dialogare con noi?
A immaginare quel che vorrebbe dirci, se potesse comunicare a parole? Io ogni tanto – nella mia capacità immaginifica da teatrante - ci provo, con risultati devastanti. Perché un conto è metaforizzare i cataclismi che sono davanti agli occhi di tutti noi (dalla desertificazione delle foreste, dagli smottamenti, alle alluvioni, alle esondazioni) come “risposte” della Terra ai comportamenti dell´uomo. Risposte allarmanti, ma che mantengono - nella loro straordinaria violenza - un segnale di energia, di presunta vendetta. (Quando si era bambini usava dire: ”Quando la natura con la scienza contrasta, vince la natura e la scienza non basta”). Quando, invece, alcune volte me la immagino che ci parla non riesco a non pensarla esausta, indebolita. Non immagino una voce stentorea che mi si rivolga con odio e rabbia, ma una voce stanca e affranta, che chiede una tregua, che chiede quando mai la finiremo, o per lo meno sospenderemo, di prendere, prendere, prendere. Di consumare irreversibilmente ogni sua parte anche più storicamente pregiata e testimoniale.
Spesso dalle nostre parti si parla - nelle settimane pre-elettorali - dell´ambientalismo “del fare”. Quanti proclami simili - di tutti i colori politici - abbiamo ascoltato in questi decenni?
Io, a titolo di completezza, sarei per specificare “del far bene”. Perchè il fare, in sé, non mi pare un valore. Anzi, mi preoccupa un po’. Come mi preoccupa quest’incondizionata passione che i politici, della politica alta - senza distinzione di appartenenza - hanno dichiarato nei confronti della crescita del Pil. Il Pil cresce anche producendo mine antiuomo, o imballaggi inutili che dovranno essere smaltiti (e anche questo fa crescere il Pil) o che, se smaltiti malamente, inquineranno acqua, aria, terra; e per bonificare (ammesso che sia possibile), si farà ancora crescere il Pil. Non posso che rabbrividire a leggere parole come “ SFRUTTARE”, “CREARE”. Non faccio capricci linguistici, associo il significato consueto e facilmente diffusamente intuibile.
Se invece si mettesse in campo un pizzico di saggezza, si potrebbe intraprendere la strada dell’economia del “non fare” (se non necessario, se non profondamente plausibile). Perché a volte è lì la chiave della ricchezza. Espansioni urbane immotivate (se non dal puro profitto dei soliti soggetti) e cementifici nelle vigne (cancellando risorse ed etico lavoro contadino), sono ferite aperte nel cuore di territori che, in salute e bellezza, stanno producendo economia. Perché non lasciarli continuare? Perché disturbare?
Bisogna stare attenti, perché la cultura del fare - se non ha filtri - diventa la cultura del rifare, del disfare, del fare troppo per poi distruggere. È una cultura subdola, perché si spaccia per libertà, progresso, benessere.
Pensate ai prodotti dietetici che vengono pubblicizzati in questi ultimi tempi. Pastiglie che impediscono all’organismo di assorbire calorie, mentre se ne ingurgitano a volontà. Non è una follia?
Non è immorale?
Per non ingrassare bisogna mangiare di meno e meglio, ed avere uno stile di vita corretto, (mangia meno maiale, sostiene il mio amico medico dello sport, certo non riferendosi al suino). La soluzione non può essere ingollare qualunque quantità di cibo, per poi rendere il nostro organismo impermeabile alle calorie. È come tenere le nostre case a 25 gradi d´inverno per stare in salotto in maniche corte; è come usare abbondantemente la preziosa acqua potabile per lo sciacquone del water. Ecco dove ci ha portato la cultura del fare. A fare male, a fare troppo. A fare cose che ci costano tanti soldi e per avere quei soldi dobbiamo lavorare di più, e per lavorare dobbiamo fare, fare, fare. Se mangio meno e meglio, spendo meno e non ingrasso. Risparmio sia sul cibo che sulle pastiglie dimagranti. Posso destinare quei soldi diversamente, oppure decidere che non ne ho bisogno, quindi non ho necessità di guadagnarli, quindi ho qualche ora libera in più. Magari per curare un piccolo orto o per giocare con i miei figli o per leggere il giornale, … saltando le pubblicità delle pastiglie dimagranti.
L´economia del “non fare”, invece, ha le sue radici nella cultura dell´osservare. E del chiedersi: che bisogno ce n´è?
L´economia del “non fare” ha uno sguardo lungo. Non ragiona in termini di ritorni immediati: ha i tempi della natura, non quelli della finanza. Investe a lunghissimo termine e ha straordinari ritorni, perché è un’economia che non si occupa solo di denaro.
Si occupa: di culture, di identità, di territori, di origine, di storia e di storie.
Si occupa: di paesaggio, di turismo, di conoscenza, di salute e di bellezza.
Si occupa: di vigne, di imprenditoria, di mercato, di relazioni, di comunità, di coerenza.
Siamo capaci di calcolare queste spese? Quanto costa una collina distrutta? Quanto costa un paesaggio devastato? Quanto costa un anziano che si immalinconisce perché il figlio non curerà più la vigna? Quanto costa l´orrore di un cartello che, in mezzo a colline vitate, avvisa che respirare può essere pericoloso? Quanto costa un bambino che cresce in mezzo alla bruttura?
I crociati del fare insorgeranno: con la cultura del non fare non ci sarebbero nemmeno le vigne, diranno. Troppo facile esagerare. Troppo facile far finta di non capire che quando parliamo di economia del non fare stiamo parlando, semplicemente, di economia della cura. E la cura è una cosa seria, complessa e delicata. Che richiede sensibilità, competenza, cultura e dedizione. Perché non si può, mai, curare solo una parte.
Ecco cosa ci chiede la Terra, con la sua voce stanca: che ci si prenda cura di lei. Che la si smetta con gli interventi, le violenze, le conquiste. Che ci si metta in ascolto, per capire dove duole, cosa le fa male, cosa le fa bene. Deponiamo le armi del fare, smettiamo di considerarci padroni a casa d´altri. Cerchiamo di non disturbare, di non interrompere, di non sporcare. Ascoltiamola e prima o poi capiremo che la cura che serve a lei, è la stessa che serve a noi!
Ma cosa credete … gli alberi millenari, le trazzere di contrada C.da Cugnarelli non hanno pari valore delle testimonianze della civiltà greca o delle chiese baricche di Palazzolo? Sono anch’essi bene dell’umanità. E non sono risultanza di una umanità minore né in ingegno, né in dignità ed amore del lavoro speso. Quando a queste delicatezze in equilibrio, verranno sostituite violente bestemmie di cemento armato … allora ogni ripristino originario dei luoghi sarà impossibile e le resipiscenze tardive.
Se non ci alleniamo in questo esercizio, gli unici messaggi che riusciremo a cogliere resteranno quelli delle catastrofi. E dopo ogni catastrofe … i falsi crocerossini del fare si rimettono all’opera, mentre i curatori del far bene vedono allontanarsi il traguardo del benessere.
Scusate il pensiero forse troppo personale e un pizzico contorto, quindi non proprio a misura per tutti.
Grazie per l’ospitalità!
Ellj Nolbia